Opera in tre atti. Musica di Giacomo Puccini. Libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini.
Prima rappresentazione: New York, Teatro Metropolitan, 10 dicembre 1910.
Ed. Ricordi, Milano, riduzione dell’organico orchestrale a cura di Ettore Panizza.
Minnie Rebeka Lokar
Jack Rance Sergio Vitale
Dick Johnson Angelo Villari
Nick Didier Pieri
Ashby Andrea Concetti
Sonora Valdis Jansons
Trin Antonio Mandrillo
Sid Federico Cavarzan
Bello Ramiro Maturana
Harry Marco Miglietta
Joe Giuseppe Raimondo
Happy Matteo Loi
Larkens Maurizio Lo Piccolo
Billy Jackrabbit Gaetano Triscari
Wowkle Candida Guida
Jake Wallace Christian Federici
Jose Castro Marco Tomasoni
Un Postiglione Alessandro Mundula
Maestro concertatore e Direttore
Valerio Galli
Regia
Andrea Cigni
Scene Dario Gessati
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Fiammetta Baldiserri
Assistente alla regia Luca Baracchini
Assistenti alle scene Maddalena Moretti, Stefano Pes
Assistente ai costumi Donato Didonna
Assistente alle luci Veronica Varesi Monti
Maestro del Coro Diego Maccagnola
Coro OperaLombardia
Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano
Coproduzione Teatri di OperaLombardia
Nuovo allestimento
Ai piedi delle Cloudy Mountains, California. Campo di minatori ai tempi della febbre dell’oro (1849-1850).
Atto I Interno della “Polka”. Minnie gestisce la “Polka”, una taverna frequentata dai minatori. Aspettando Minnie, che per loro è compagna e confidente e della quale sono tutti innamorati, i minatori giocano a carte, mentre qualcuno si fa prendere dalla malinconia. Minnie arriva e legge la Bibbia ai minatori. Lo sceriffo Jack Rance le dichiara il suo amore, ma la ragazza elude il discorso. Alla taverna arriva un forestiero che dice di chiamarsi Dick Johnson. Minnie riconosce in lui lo straniero che aveva incontrato un giorno sul sentiero di Monterey, e del quale si era subito innamorata; lo ammette perciò nel suo locale, garantendo per lui. Affascinato dalla fanciulla, Dick Johnson danza con lei e non riesce a separarsene. Intanto i minatori lasciano la taverna per mettersi sulle tracce del bandito Ramerrez, la cui banda da qualche tempo infesta la zona. Minnie e Dick Johnson restano soli e si dichiarano il loro amore. La ragazza invita il forestiero a raggiungerla, per un ultimo saluto, nella sua capanna ai margini della foresta.
Atto II Interno della capanna di Minnie. Lo sceriffo Jack Rance e i minatori avvertono Minnie che Dick Johnson e Ramerrez sono la stessa persona, e che il bandito – giunto alla “Polka” per depredare l’oro dei minatori – sembra essersi nascosto nei dintorni. Sdegnata, Minnie costringe Dick Johnson ad abbandonare la capanna ma, sulla porta, egli viene ferito da un colpo di pistola dello sceriffo, che insospettito si era nascosto nei pressi. Minnie allora, impietosita ed innamorata, nonostante l’inganno, fa rientrare il giovane e lo nasconde nel solaio. Jack Rance entra nella capanna, alla ricerca del bandito, ma non riesce a trovarlo, finché una goccia di sangue, caduta dall’alto, ne rivela la presenza. Minnie propone allora un patto allo sceriffo: giocheranno a poker e se Jack Rance vincerà avrà la ragazza e il bandito. Minnie bara e vince la partita: il suo uomo è salvo.
Atto III Radura della grande selva californiana. Dick Johnson è deciso ad abbandonare la sua vita di fuorilegge ed è riuscito a far perdere le sue tracce, ma nei pressi del confine è catturato dai minatori, che si preparano ad impiccarlo. Dichiarando di essere stato un ladro, ma non un assassino, egli rivolge l’ultimo addio a Minnie e si prepara a morire. Ma in suo soccorso interviene improvvisamente la ragazza: essa si rivolge ai minatori e chiede di risparmiare la vita di Dick Johnson, in memoria di quanto – tristezza, sofferenza, speranza – hanno condiviso nel tempo. I minatori, commossi, lasciano libero Dick Johnson che si allontana con Minnie deciso ad intraprendere una nuova vita con lei.
di Andrea Cigni
Quello che non vorremmo fare nella rappresentazione di quest’opera è raccontare un Far West fatto di cowboys e pistoleri, che nulla hanno a che fare con quest’opera, nulla di nulla. Quello che vorremmo raccontare è piuttosto un microcosmo dentro al quale tutto si svolge, una microsocietà fatta di uomini, costretti a vivere una condizione professionale e sociale particolare (quella di minatore necessariamente bisognoso di risorse e lavoro senza alcuna altra possibilità per vivere – lui e la eventuale famiglia lontana). Condizione di isolamento, di frustrazione, di routine nella propria vita, di ‘maledetti’ senza possibilità di redenzione. Vero, l’opera racconta di una storia d’amore che finisce, tra l’altro, a lieto fine. Ma è il contesto dentro al quale si svolge la storia d’amore che vorrei portare in scena.
Lavorare insieme, dormire insieme, mangiare insieme, imparare insieme, tutto sempre ripetuto, nello stesso mondo dove Minnie è lo spiraglio di luce. Tutti ne sono innamorati, tutti, la ammirano, tutti la ascoltano. Per sfuggire alla loro deprimente quotidianità.
Vivere insieme porta inevitabilmente a contrasti, tutto viene estremizzato e ogni pretesto è buono per accentuare i contrasti, anche una semplice partita a carte. Ma c’è anche la voglia di volersi bene, di consolarsi, di stare insieme (per forza probabilmente) e i momenti struggenti del ballo tra gli uomini o il profondo senso di condivisione di una condizione ne sono alcuni esempi, convinti che ormai il destino sia in qualche modo inesorabilmente segnato.
Ciò che penso dovrebbe venire fuori è il “micro-mondo” o la microsocietà dentro alla quale tutto si svolge. Luogo ipotetico della California, ma potrebbe essere ovunque, non è la dimensione geografica che preme nella storia, bensì quella antropologica e sociale. La miniera come luogo di lavoro, fatica, sforzo, abbrutimento, reiterazione, alienazione. Il ‘saloon’, la mensa, il refettorio, dove si arriva (e si crea sotto i nostri occhi grazie al lavoro degli uomini) uscendo dalla dimensione della miniera dove invece svago, sfogo, educazione, divertimento, nostalgia e umanità sono sempre presenti. È il luogo dove si impara, dove ci si sente protetti, dove Minnie è: madre, sorella, maestra, amica, amata. Ed è un luogo che non esiste, ma che quotidianamente i minatori allestiscono come se fosse il bar della loro vita precedente (idealmente nell’Europa da cui provengono quasi tutti) al loro essere minatori.
È come se nello stesso ambiente, una specie di ‘stanza’ ma come dire una scatola drammatica (cioè di azione), tutti si occupassero di ‘costruire’ i loro luoghi, l’ambiente in cui ‘agiscono’. Magari basta solo qualche botola, un’apertura da cui tutti arrivano, entrano all’inizio e dove probabilmente rientreranno alla fine. Tutti gli uomini, minatori (in questo ‘tutti’ metto i solisti – minatori – ma anche, ad esempio, i tecnici che fanno lo spettacolo, come se anche loro fossero ‘minatori’), entrano da quei passaggi della pedana. Dal loro mondo sotterraneo. Gli altri invece intervengono da sopra (Rance, Ashby, il cantastorie, Minnie, Dick, Castro, Postiglione). I minatori sono un unico personaggio. E così anche gli altri ambienti, la casa di Minnie è il risultato della trasformazione di quel luogo dove si svagano. E il luogo finale è la creazione attraverso il lavoro degli uomini di questo luogo che ha come centro drammatico il patibolo di Dick Johnson.
Il ‘minatore’ in quanto personaggio è utilizzato per estremizzare una condizione sociale di grande fatica, di oppressione, di sofferenza e poter percepire Minnie davvero come l’unica valvola di sfogo, come l’unico conforto.
Vero che la storia ha un lieto fine. Ma a ben riflettere non è totalmente così. Diciamo che c’è ‘anche’ il lieto fine (Minnie e Dick che vanno verso un ‘futuro’), ma c’è un altro aspetto del finale che, anche musicalmente, ci lascia un languore, una malinconia, una sofferenza: è l’addio. L’addio tra Minnie e i Minatori (come unico personaggio composito) che invece ci consegna un finale straziante. I minatori che ritornano nel loro luogo sull’addio finale, senza redenzione appunto e lei che li abbandona a questo destino.