2021 Il trovatore
2021 Il trovatore
2021 Il trovatore
2021 Il trovatore

2021 Il trovatore

Opera in tre atti. Musica di Giacomo Puccini. Libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarini.
Prima rappresentazione: New York, Teatro Metropolitan, 10 dicembre 1910.
Ed. Ricordi, Milano, riduzione dell’organico orchestrale a cura di Ettore Panizza.

Minnie Rebeka Lokar
Jack Rance Sergio Vitale
Dick Johnson Angelo Villari
Nick Didier Pieri
Ashby Andrea Concetti
Sonora Valdis Jansons
Trin Antonio Mandrillo
Sid Federico Cavarzan
Bello Ramiro Maturana
Harry Marco Miglietta
Joe Giuseppe Raimondo
Happy Matteo Loi
Larkens Maurizio Lo Piccolo
Billy Jackrabbit Gaetano Triscari
Wowkle Candida Guida
Jake Wallace Christian Federici
Jose Castro Marco Tomasoni
Un Postiglione Alessandro Mundula


Maestro concertatore e Direttore
Valerio Galli

Regia
Andrea Cigni

Scene Dario Gessati
Costumi Tommaso Lagattolla
Luci Fiammetta Baldiserri

Assistente alla regia Luca Baracchini
Assistenti alle scene Maddalena Moretti, Stefano Pes
Assistente ai costumi Donato Didonna
Assistente alle luci Veronica Varesi Monti

Maestro del Coro Diego Maccagnola

Coro OperaLombardia
Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano

Coproduzione Teatri di OperaLombardia

Nuovo allestimento

ATTO I Il duello

Ferrando narra agli armigeri del conte di Luna la storia di un zingara, condannata al rogo per stregoneria, la cui figlia, per vendicarsi, aveva rapito uno dei due figli del conte – ancora in culla – e l’aveva bruciato. Una nobile dama, Leonora, narra alla sua confidente Ines di amare uno sconosciuto cavaliere, incontrato in un torneo, il quale viene nottetempo a trovarla, accompagnando i suoi canti con il liuto. Compare il conte di Luna, figlio dell’omonimo conte al quale era stato rapito il bambino, rivale in amore del trovatore. Quando questi giunge, il conte di Luna lo sfida a rivelare il proprio nome e l’altro dichiara d’essere Manrico, seguace dell’eretico Urgel. I due si allontanano per battersi.

ATTO II  La gitana

Su un monte della Biscaglia alcuni zingari al lavoro cantano, battendo ritmicamente i martelli sulle incudini. Azucena narra in disparte a  Manrico che una zingara, bruciata perché accusata di stregoneria, le aveva chiesto, prima di morire, di vendicarla. Era sua madre e Azucena aveva rapito un bambino, figlio del conte di Luna, con l’intento di bruciarlo. Ma, frastornata, aveva gettato tra le fiamme il proprio figlioletto e non il bambino rapito. Manrico è sorpreso e turbato, ma Azucena lo rassicura: se non fosse sua madre non avrebbe curato amorosamente le ferite da lui riportate in una vittoriosa battaglia. Ma perché, quando il conte di Luna era piombato su di lui con i suoi, non l’aveva ucciso? Manrico non sa spiegarselo. Azucena gli fa giurare che, se in futuro dovesse ancora battersi con il conte, non avrà pietà. Giunge poi un messo e narra che Leonora, credendo morto Manrico, sta per farsi suora. Manrico, ignorando le preghiere di Azucena, balza a cavallo e piomba sul conte di Luna, che si accingeva a rapire Leonora.

ATTO III Il figlio della zingara

Sfilano gli armigeri del conte di Luna, il quale assedia Castellor, difesa da Manrico e dai suoi; subito dopo è catturata una zingara sorpresa in attitudine sospetta. In lei Fernando riconosce chi aveva rapito e dato alle fiamme il fratellino del conte. Torturata, Azucena invoca l’aiuto del figlio Manrico. In Castellor, Manrico e Leonora sono sul punto di sposarsi allorché Ruiz avverte Manrico che il conte di Luna ha già fatto accendere le pira sulla quale Azucena sarà bruciata. Manrico, disperato, si affretta a salvare la madre.

ATTO IV Il supplizio

Leonora si aggira nei pressi del palazzo dove il conte ha imprigionato Manrico. Al suo orecchio giunge la voce di Manrico, che invoca la morte e le invia l’estremo saluto. Leonora promette allora al conte il proprio corpo in cambio della salvezza di Manrico. In prigione, sono rinchiusi Manrico e Azucena. Sopraggiunge Leonora e annuncia a Manrico che è libero; ma quando Manrico apprende a quali condizioni, inveisce contro di lui, ravvedendosi tuttavia quando Leonora gli rivela d’essersi avvelenata e lo esorta alla fuga. Il conte di Luna trova Leonora morente e ordina che Manrico sia giustiziato. A esecuzione avvenuta, Azucena, morente, gli rivela che Manrico era suo fratello, da lei rapito bambino.

STORIE DI AMORE, GELOSIA E VENDETTA
di Jacopo Brusa

Il celebre critico musicale e studioso delle Opere di Verdi Abramo Basevi scrisse nel 1859, a proposito del Trovatore: “ognuno vede che le inverosimiglianze ed anche le assurdità non mancano in questo argomento, ma per compenso vi è quanto basta a scuotere la fibra dello spettatore”. In questa definizione, in effetti, si racchiude il “segreto” del successo del Trovatore che, fin dalla prima rappresentazione del 1853, fu sancito dal pubblico. Il Trovatore, nonostante le ambiguità della trama, ammalia l’ascoltatore grazie alle suggestioni melodiche, ritmiche e coloristiche che si susseguono quasi freneticamente e che, paradossalmente, sono rese possibili dalla struttura del libretto stesso. Prendiamo ad esempio i primi cinque numeri musicali dell’Opera, quelli che hanno il compito di renderci, o meno, interessati all’ascolto. Ebbene, in quattro di essi vi sono dei “racconti” che, indipendentemente dalle vicende narrate, stimolano in noi il fascino arcaico del “rito del racconto”, quel rito che evoca Ferrando nell’Introduzione e, nel momento in cui il coro (ma anche il pubblico!) gli chiede di “narrare la vera storia di Garzia”, lui risponde: “La dirò: venite intorno a me!”, invitandoli/ci tutti idealmente attorno al fuoco per ascoltarlo. É Verdi stesso che ci “invita”, sfruttando magistralmente le possibilità espressive legate al testo della narrazione che, a sua volta, ci rimanda all’affascinante esotismo del mondo gitano di Azucena. La zingara, peraltro, è il personaggio veramente innovativo dell’Opera per il quale, fin dall’inizio, Verdi prevede un ruolo talmente centrale che vorrebbe che l’intero melodramma fosse intitolato a lei! Azucena si muove sempre tra disperazione, malinconia e sete di vendetta, tra momenti di lucidità e di follia, condizioni emotive, queste, che esaltano la scrittura verdiana. “Quando Azucena non ragiona, ragiona meglio il Dramma”, scriverà. Come per la Lady Macbeth di sei anni prima, la “pazzia” e, ancora di più in Azucena, lo stato ipnotico in cui spesso si trova, portano Verdi a sperimentare un uso della voce che volge molto spesso al “declamato” e al “parlato”. Di contro, Leonora, è l’espressione del Belcanto, incarnata dal legato dei Cantabili, dalle cadenze virtuosistiche, dalle agilità e – perché no? – dalle variazioni nelle Cabalette. La dinamicità dell’azione drammatica, infine, è garantita dal tradizionale duello “guerriero e amoroso” tra il Baritono e il Tenore. Verdi, per il Conte e Manrico, si esalta utilizzando le “armi” della Solita Forma. Le vicende narrate nel Trovatore, quindi, sono una vera summa di quelle passioni che Verdi cerca avidamente in quegli anni (Amore, Gelosia e Vendetta) e che gli permettono di immettere nella “tradizione” quegli elementi innovativi che contribuiranno a renderlo immortale.

Siamo in un luogo dove qualcosa è successo. Un luogo dove il fuoco ha distrutto ogni cosa. La fiamma ha attraversato la bellezza che un tempo vi dimorava e ne ha ucciso ogni possibile testimonianza.
Resta l’ossame di quel mondo e l’ immagine del vecchio progetto, ciò che doveva essere quel mondo prima del disastro, lo scheletro su cui costruire il nostro luogo da abitare.
Questo progetto è sotto gli occhi dello spettatore da subito, quasi fosse un promemoria dello sforzo compiuto prima della sua realizzazione. Come se facessimo coincidere il progetto di un palazzo bellissimo con la fotografia della sua distruzione. È un ricordo, è lo strazio della memoria che continua a bruciarci i pensieri, è la compresenza di ciò che era e di ciò che non c’è più.
Così questa storia comincia, in un mondo compromesso, dove il trauma di Azucena, amplificato sulla scena, ha investito la vita di chi vive in una stanza completamente sommersa dai resti di un mondo perduto.
Una libreria che non ha smesso di bruciare ci rimanda all’ impossibilità di verificare che le cose qui narrate siano davvero accadute.
È la storia di un dolore doppio e terribile. La storia di una donna che ha visto morire la madre e che per errore ha arso vivo il proprio figlio. Il fuoco è l’assassino, l’immagine che si è impressa negli occhi al punto da sostituirsi al mondo tutto intero.
Azucena, così come tutti gli abitanti di questa storia, si muove sopra i resti che quel fuoco ha lasciato dietro di sè, e il suo incedere passo dopo passo nel mare nero che le ricorda tutto, le brucia ancora la pelle.
Le sue mani, come un aratro, solcheranno la terra ricoperta di cenere scoprendo la luce che vi si nasconde.
Perchè bisognerà scavare  per disseppellire il mondo che era e trovare una “pace bianca” che possa tornare a far respirare tutti.
È la rimozione di un trauma. La pulizia definitiva di un’anima fortemente compromessa dal dolore. La ricerca della luce che ognuno di noi possiede e che è seppellita sotto il peso delle colpe.
I resti bruciati che vengono rimossi non sono mai abbastanza, e il bianco che giace sul fondo lo si può solo intravedere, Mucchi di sporco vengono prelevati a tempo dagli zingari, con le donne che incitano gli uomini a fare un buon lavoro. In quel mondo bisognerà abitarci per sempre e, per sempre, si sarà condannati forse ad operare questa rimozione. Come ci fosse, sulla pelle di ciascuno, l’impronta di un peccato da dover espiare.
Ognuno col suo peso. Ognuno con la propria colpa.
Azucena rivive il trauma di quella doppia morte di continuo. La sua realtà, filtrata da occhi ormai morti, è quella che ciascuno di noi vede.
Ciò che le è accaduto è talmente potente che ha involontariamente toccato tutti. Solo Leonora potrà liberarli. Soltanto la sua morte potrà davvero rendere possibile questo amore che altrimenti, soffocherebbe sotto la cenere come tutto questo mondo che agonizza. Sarà così che deciderà di offrirsi all’uomo che da tempo brama di possederla. Al cospetto del Conte di Luna, infatti, offrirà se stessa in cambio della libertà, in cambio di una breccia nel muro, di uno spiraglio di luce che consenta a Manrico di fuggire via da questa “tomba di vivi”. Il suo sacrificio, questo amore che in questo mondo non trova spazio, potrebbe liberarli tutti. Nessuno però ha tempo di vedere che la via è schiusa; che, finalmente, tutto il mondo è in luce. Al cospetto della definitiva libertà, si resterà immobili e inermi. Ciascuno impegnato con la propria rabbia, con la grande stanchezza che questo vivere comporta. Perchè i personaggi di questa storia non compiono alcuna evoluzione. Sono immobili. Si fanno voce di un passato perduto e di un futuro che forse non vedranno mai. Il racconto è un graduale svelamento del loro vissuto, di un antefatto a noi celato, di battaglie combattute lontano dalla scena, di dolori talmente forti da essere indicibili. Ciascuno con la propria coltre di cenere addosso e questo tentativo, ostinato e perpetuo, di rimuovere lo sporco per disseppellire la purezza perduta. Come ciascuno di noi, nel rapporto coi dolori da cui cerchiamo di liberarci, con le colpe da cui vogliamo ripulirci. Alla fine di questa storia, Manrico viene mandato a morire e gli occhi di Azucena si posano su un altro omicidio. “Egli era tuo fratello”, urla la zingara al Conte che finalmente entra in possesso della verità. Quell’uomo è ora un omicida.Il trauma col quale deve convivere adesso, è soltanto il suo. Azucena vendicando la madre spegne in parte il suo dolore. Leonora e Manrico, liberandosi nella morte, sono gli unici esseri umani di questa storia ad essersi salvati. Il conte, pur sopravvivendo, è destinato alla peggiore delle condanne: quella delle anime morte condannate alla vita.

Roberto Catalano

Dettagli